martedì 18 marzo 2008

Vincere da ultimi

Nella primavera nel '86 un'associazione sportiva del mio paese organizzò la prima maratona della sua storia. Per lo svolgimento della gara scelse il 25 di Aprile, una giornata dal forte valore storico e simbolico ma soprattutto giornata di festa per la maggior parte dei lavoratori che in questo modo avrebbero potuto partecipare all'evento. L'organizzazione prevedeva dei premi per i vincitori ma, come ogni grande maratona che si rispetti, l'intenzione era principalmente quella di creare un incontro sociale, un'occasione per lasciare a casa l'auto e godersi il primo sole primaverile seguendo un percorso che poteva essere effettuato a qualunque andatura.

C'era un bel sole quel giorno: dalle mie parti solitamente quel periodo è il preludio della stagione più melodica dell'anno.

Mio padre ebbe la salutare idea di partecipare a quella gara. Ma, insieme a questa, ne ebbe un'altra meno felice: portare anche me.
Avevo 6 anni, non compiuti. Cinque e tre quarti.
(e mio padre l'età che io ho adesso)

Ero un bimbo grassottello, pur essendo la disperazione dei miei genitori perchè non mangiavo quasi nulla. Mio padre mi aveva già iscritto ad un corso di basket da qualche mese (organizzato dalla stessa società della maratona) ma forse a causa dei miei limiti strutturali facevo sempre una gran fatica a correre per più di 8 secondi.

Immaginate cosa potevano significare per me 10 km.

Ho pochi ricordi di quella giornata, ma quei pochi sono perfettamente nitidi.

Ricordo di essermi sentito male più volte perchè lo sforzo che facevo era enorme.
Ricordo che correvo ad intervalli di 10: 10 secondi di corsa e 10 minuti di camminata.
Ricordo che mio padre era sempre lì affianco a me, si divertiva.
Ricordo il sudore grondante ed il pantalone felpato che mi sentivo attaccare sulle gambe.

Ma quella sofferente esperienza fu solo l'inizio.

A basket c'ho giocato fino all'età di 17 anni, poi ho fatto l'arbitro per altri quattro e dal 2002 sono tesserato allenatore. Totale: nel 2006 ho festeggiato i miei 20 anni di sport. Non pochi.

Credo di avere il diritto di poter affermare che il mondo dello sport lo conosco. E lo adoro.

Dirò di più: per me è uno spazio dell'esperienza umana, uno dei pochi, se non forse l'ultimo ormai, in cui sono ancora fortemente presenti dei valori e che addirittura possono essere considerati indistruttibili. Un esempio su tutti, pensate solo al concetto base della "vittoria": in una competizione tra 2 o più partecipanti solo un soggetto può prevalere sugli altri, il numero uno, il campione. E lo fa seguendo esattamente le stesse regole di tutti, solo ed esclusivamente attraverso le sue forze, la sua bravura, la sua energia, la sua costanza, la sua concentrazione, il suo talento, la sua determinazione. Un soggetto che non sarà mai un campione assoluto, ma che di lì a poco dovrà rigiocarsi tutto con tutti per cercare di dimostrare ancora di essere il più bravo.

La parte più emozionante del mio ventennio sportivo è stato l'ultimo anno, quando mi sono ritrovato da solo a gestire il settore minibasket, dai bimbi di 4 anni ai ragazzini della prima media.

Fin dal primo giorno, l'obiettivo che mi ero fissato era uno solo: i ragazzi con me non avrebbero imparato a giocare a basket, ma avrebbero imparato lo sport, giocando a pallacanestro.
Era, e sono, fermamente convinto che ad un bimbo di sei anni, in quell'ora di attività sportiva, bisogna regalargli la possibilità di divertirsi, di correre, di gridare, di staccare la mente dai compiti che ancora non ha fatto o dall'amico di banco col quale ha litigato, di non ascoltare le urla dei suoi genitori, di sentirsi uguale a tutti gli altri. Se poi in tutto questo l'istruttore è così bravo da nasconderci anche degli insegnamenti tecnici, ben venga: il ragazzo imparerà senza neanche accorgersene.

In quella stagione le emozioni e le soddisfazioni furono tante. E non parlo di quelle sportive, per carità. Ai mini tornei le mie squadre, composte per lo più da ragazzini alle prime armi o dai fisici non perfettamente "atletici", prendevano batoste che neanche immaginate. Avessi allenato una squadra di serie A sarei stato esonerato dopo il primo quarto della prima gara di campionato.

Ma i miei ragazzi erano gli unici in tutta la provincia che prima della gara andavano dai loro avversari a stringere la mano (e così facevo anche io, divertendomi a vedere le reazioni, purtroppo, stupite dei miei colleghi), gli unici che dopo un fallo un po' più violento anche se involontario andavano a chiedere scusa all'avversario, gli unici che sapevano benissimo di non poter dire neanche la più comune parolaccia, pena l'esclusione dal campo e conseguente riscaldamento del posto panchina.

A volte perdevamo le partite in maniera davvero esagerata, ma non c'era soddisfazione più grande al mondo che vedere i miei ragazzi contenti e sorridenti. TUTTI, dal ciccione al piccolo talento, da quello arrivato due giorni prima al veterano.

Mi piace pensare di aver insegnato qualcosa di buono a quei ragazzi.
Su tutti, il valore a cui tenevo di più in assoluto: il rispetto.

Ho cercato di far capire loro che lo SPORT non era esattamente quello che vedevano in tv, che quello reale era quello che ogni giorno facevamo in quella fredda e umida palestra, che il doping è per i vigliacchi e non per gli sportivi, che Calciopoli non centrava nulla con il calcio.

Io ci credo ancora.
Fino a pochi anni fa volevo tatuarmi i Cinque Cerchi olimpici sulla caviglia o dietro il collo.
Pochi simboli al mondo hanno lo stesso potere significativo e comunicativo di quei cerchi intrecciati tra loro.

Perchè vi ho parlato di tutto questo?

Perchè in Italia in questi giorni si parla tanto della possibilità di boicottare le Olimpiadi cinesi. Qualcuno, giustamente, dice che mentre lì la polizia spara alla gente per strada noi in Italia ci preoccupiamo dei Giochi. Ma visto che il tema mi riguarda fortemente, visto che davanti alla tv, guardando le gare olimpiche, ho vissuto alcune delle più belle emozioni della mia vita e visto che in un giorno d'inizio d'Olimpiadi ci sono anche nato, dico la mia opinione.

Io sono fermamente convinto che l'errore grande sia stato quello di concedere alla Cina l'organizzazione dei Giochi Olimpici. Ma ormai la frittata è fatta.
Così come sono ormai convinto di essere totalmente contrario al boicottaggio.

I Cinque Cerchi sono intrecciati, formano una catena. Lo sfondo è bianco. Non hanno sede, non hanno stato, non hanno nazione. Quei Cinque Cerchi sono i cinque continenti che per una volta ogni quattro anni si sfidano sotto le nobili regole dello Sport.
Sono il rispetto per gli altri, sono l'uguaglianza tra le razze, sono la ricchezza delle diversità.
Sono anche il sudore degli atleti, i sacrifici che fanno, i loro sogni da bambini, le loro emozioni, le loro lacrime di gioia e di dolore, i loro inni e le loro bandiere.
Sono valori che deve cominciare a conoscere anche il miliardo e quattrocentomila del popolo cinese che in questi giorni, passivi di una spietata manipolazione della comunicazione ad opera del regime, accusano e condannano i fratelli del Tibet ed il loro leader spirituale, definito "spietato e malvagio".


Lo sport come salvezza.
Lo sport come PACE.


Di quella maratona del lontano '86, che dall'anno successivo divenne una semplice passeggiata, una "Marcia di Primavera", e che ancora oggi si svolge ogni 25 Aprile dell'anno, ho anche altri ricordi.

Che nonostante le grosse difficoltà e le richieste di abbandono della gara, mio padre mi fece andare avanti, senza aiuti, standomi sempre vicino.
Che finii il percorso quando già avevano svolto la premiazione e preparavano la seconda gara per i senior.
Che un ragazzetto che conoscevo rideva delle mie condizioni e di essere arrivato così ultimo che forse potevo essere il primo della gara successiva.
Ma soprattutto che mio padre volle che passassi dal traguardo, concludendo la gara come tutti. E poi mi sorrise.

Nessuno poteva sapere che l'ultimo arrivato aveva vinto il più grande insegnamento.



p.s.: A breve un post sulla situazione Tibet. Il tempo di documentarmi al meglio.

Nessun commento: